Cgil - Confederazione Generale Italiana del Lavoro XIII Congresso Nazionale Cgil
CGIL
Confederazione Generale Italiana del Lavoro
XIII Congresso Nazionale

IL NUOVO PROGRAMMA FONDAMENTALE DELLA CGIL


Capitolo VI

Politiche e risorse per lo sviluppo


1. Lo sviluppo sostenibile

La consapevolezza rispetto al consumo irreversibile delle risorse ha fatto con la Conferenza dell'Onu su "Ambiente e sviluppo" un salto di qualità.
Il modello di produzione oggi in atto mostra i suoi due limiti: un utilizzo insufficiente delle risorse di manodopera che causa disoccupazione e l'eccessivo consumo dell'ambiente. Essi non sono risolvibili ne con la ricerca di nuovi mercati, nè solo con politiche di disinquinamento.
I prezzi di mercato non tengono conto della disponibilità limitata delle risorse naturali e della distruzione dell'ambiente. Tali risorse quindi sono state sistematicamente sovrautilizzate. L'insostenibilità di questo modello di produzione e di consumo è dimostrata dal costo crescente degli interventi di disinquinamento e riparazione del danno, dall'esaurimento e degrado delle risorse naturali, che costituisce un onere che scarichiamo sulle future generazioni, dall'impossibilità di estendere gli attuali modelli produttivi e di consumo ai paesi di tutto il mondo perchè ciò richiederebbe risorse dieci volte superiori a quelle disponibili, dalla minaccia all'equilibrio naturale dell'intero pianeta che deriva da dimensione e qualità delle forme di inquinamento.
Per questo da una politica diretta a controllare l'inquinamento ed a riparare i danni a valle del processo produttivo si deve passare a una politica volta ad attuare una produzione ecostenibile e a realizzare una riconversione ecologica dell'economia.
E necessario introdurre meccanismi di controllo della crescita e criteri di valutazione su cosa si produce e come si produce, considerando l'ambiente un valore ed un'opportunità, non un vincolo allo sviluppo economico; uno dei fattori su cui fondare un patto intergenerazionale.
Questo significa far interagire questioni economiche e questioni ambientali in una visione intersettoriale e internazionale, attivando una serie di strumenti differenziati. Primo fra tutti il ruolo della ricerca e dell'innovazione tecnologica volto alla produzione di nuove tecnologie integrate che riducano il fabbisogno di risorse, migliorino la produttività naturale dei prodotti, come il maggior rendimento energetico, e ne aumentino la durata, sviluppino la possibilità di reimpiego e riciclaggio, riducano la produzione di rifiuti connessa al processo produttivo.
Vanno messe in atto politiche settoriali mirate nei comparti dell'energia, dei trasporti, dell'agricoltura e dell'industria. I programmi di riconversione industriale vanno verificati in rapporto alle esigenze di compatibilità ambientale. Per riconvertire l'economia verso criteri di sviluppo sostenibile occorre inoltre agire con strumenti fiscali ed economici. Alla fiscalità ambientale basata sul principio "chi inquina paga", va affiancata una politica di incentivi fiscali alle produzioni "pulite". E necessario un sistema di contabilità nazionale capace di registrare nella determinazione del Pil anche la dimensione dell'uso di risorse naturali.
Altrettanto rilevanti sono le politiche volte alla difesa e alla fruibilità del patrimonio artistico e naturalistico e quelle mirate alla qualità dei sistemi urbani relativamente al ciclo delle acque, al ciclo dei rifiuti, a trasporti, reti fognarie, qualità dell'aria, riqualificazione del patrimonio abitativo, recupero dei centri storici. Questi sono altresè terreni che offrono possibilità occupazionali legate ai bisogni delle collettività locali e sui quali innestare veri e propri progetti per l'occupazione, in coerenza con le indicazioni del Libro bianco di Delors.
Per la Cgil queste sono ragioni da affermare nella contrattazione a vari livelli e in quella territoriale, per prevenire e governare il conflitto fra lavoro e ambiente, fra lavoratori- produttori e lavoratori-cittadini. Terreno concreto per il sindacato è altresè quello della riconversione produttiva, che va assunto non solo come possibilità di rispondere a situazioni di crisi, ma come occasione di ricerca di nuovi modelli produttivi. Tutto questo va connesso a una politica europea che assicuri normative uniformi in materia ambientale, per evitare pericoli di dumping; per questo nel trattato di Maastricht vanno inserite clausole sociali e ambientali in grado di orientare la competizione delle imprese verso produzioni non inquinanti.

2. La politica dei redditi

Il Protocollo d'intesa tra governo, organizzazioni sindacali confederali, organizzazioni imprenditoriali del luglio '93, è stato discusso e spesso applicato nelle parti che riguardavano la contrattazione sindacale nazionale e di secondo livello, del tutto trascurato, sia nel dibattito politico, sia nella concretezza delle realizzazioni per quanto riguardava le politiche economiche, di sostegno al sistema produttivo, di riqualificazione e indirizzo della spessa pubblica.
La Cgil ritiene che bisogna ripartire dai contenuti, dagli obiettivi, dagli impegni di quell'intesa al fine di rilanciare una politica di sviluppo capace di aggredire i nodi strutturali che pesano sugli squilibri territoriali e settoriali dell'economia italiana, e che rischiano permanentemente di minare la crescita futura, mettendo in discussione sia le speranze di crescita dell'occupazione, sia il mantenimento e il miglioramento del tenore e delle condizioni di vita di gran parte della popolazione.
Per la Cgil due riferimenti di fondo devono ispirare le politiche economiche del paese: a) da un lato il risanamento del debito dello Stato; b) dall'altro il rapporto con l'Unione Europea, con le sue politiche, con le sue scadenze (nel limite del possibile).
Il risanamento dei conti pubblici e il contenimento dell'inflazione non può proseguire a spese della crescita e della spesa pubblica per investimenti o, peggio, aprendo pericoli di recessione vera e propria che aggraverebbe ulteriormente gli elementi di arretratezza, di squilibrio, di debolezza presenti nell'economia del paese.
Non c'è dubbio che, in un'economia mondiale sempre più integrata e interdipendente, determinanti saranno le spinte alla crescita o alla stasi delle economie dei paesi più forti. La globalizzazione delle economie e dei mercati, la forza dei capitali finanziari che circolano nel mondo, la realtà e le tendenze di questa fase del capitalismo internazionale, le stesse regole definite dall'Ue non consentono più di far conto sui tradizionali strumenti dell'intervento pubblico, in economia.
Non per questo è cessato ogni ruolo e ogni spazio per politiche pubbliche di indirizzo e sostegno allo sviluppo e alla crescita dell'economia; non per questo si può pensare al puro e libero gioco dei mercati, come unica risorsa a cui affidarsi obbligatoriamente. Sono due le possibili e necessarie politiche pubbliche incisive e più sofisticate che incidano in modo efficace sulle premesse e sulla qualità della formazione e dell'azione degli attori decisivi dell'economia; creando e conformando l'ambiente nel quale lo sviluppo è possibile; sviluppando la formazione necessaria delle risorse umane; creando strutture di ricerca scientifica e tecnologica, e quelle capaci di trasferirne i risultati, adeguate ad essere attori attivi di fronte al rapidissimo mutamento dei mercati e all'evoluzione rapidissima delle tecnologie e delle loro applicazioni; favorendo la costituzione di strumenti finanziari e bancari moderni, in grado di sostenere, anche con capitale di rischio, uno sviluppo solido del tessuto delle imprese e di superare la struttura familistica del capitalismo italiano; valorizzando le risorse del territorio (quelle naturali e quelle umane); favorendo una capacità di maggior internazionalizzazione delle imprese italiane (sia quelle industriali, sia quelle di servizio), non solo favorendone le capacità di esportazione, ma sostenendone la capacità di integrazione di tutti gli aspetti della vita dell'impresa (dalla ricerca, alla rete commerciale, alla proprietà ecc.).
Anche a questi fini è importante l'impostazione del Protocollo d'intesa del 23 luglio '93, nel quale sono contenute linee, impegni, obiettivi, che danno concrete possibilità di affrontare in modo nuovo una politica economica pubblica efficace per lo sviluppo.
La Cgil ritiene che alcuni nodi specifici vanno affrontati con decisione per dare il segno di una discontinuità positiva nelle politiche economiche:

3. Politica industriale per l'occupazione

La Cgil ritiene che l'individuazione delle priorità nella politica industriale deve seguire la strada dell'Europa comunitaria, favorendo la costruzione di un'Unione politica confederata della grande Europa.
Tali priorità per la Cgil riguardano intanto i temi della formazione, ricerca, innovazione tecnologica, rete infrastrutturale efficiente e diffusa. Le principali sono: La Cgil, inoltre, ritiene necessario: La Cgil ritiene, insomma, che una politica industriale per l'occupazione non può affidarsi alla pura logica del mercato e della competitività, ma richiede interventi e indirizzi pubblici che assumano l'obiettivo occupazionale nelle scelte, insieme a quello della riqualificazione dell'apparato produttivo e tecnico.

4. La rinascita del Mezzogiorno: una grande risorsa per lo sviluppo e per la democrazia

Anche per il Mezzogiorno la prospettiva federalista è una condizione essenziale per la formazione e la selezione di nuovi gruppi dirigenti, di nuove istituzioni e amministrazioni che diventino punto di riferimento, per uno sviluppo fondato sulla valorizzazione delle forze vive locali, che dia uno sbocco credibile alla volontà di riscatto e di autogoverno, che prosciughi in modo efficace le acque dove si sono diffuse e radicate da lungo tempo le organizzazioni criminali controllando parte della politica dell'economia, del territorio.
Importanti segnali di novità si sono avuti già a partire dalle elezioni dirette dei sindaci.
La Cgil ritiene, insieme, che l'unità e la coesione del paese sono ancor oggi fortemente insidiate dai grandi divari esistenti, tra Nord e Sud, nel livello di sviluppo, in quello dell'occupazione, nella qualità delle infrastrutture, dei servizi, spesso delle stesse strutture produttive.
Sono note le critiche svolte negli anni scorsi da parte del sindacato confederale e della Cgil alle politiche di intervento straordinario nel Mezzogiorno. Negli ultimi anni poi esso si era risolto soprattutto in investimenti in grandi opere pubbliche, in incentivi a pioggia alle imprese, senza che questo fosse inquadrato in progetti più generali di sviluppo, o che emergessero vincoli e impegni reali per la crescita dell'occupazione.
Ma il superamento dell'intervento straordinario, che è stata una scelta giusta, non ha portato a decidere su interventi ordinari adeguati, efficaci, trasparenti - come imposto dalle stesse direttive comunitarie anche per l'utilizzo dei fondi comunitari - se non in modo lentissimo e in termini estremamente limitati.
La situazione è stata ulteriormente aggravata dalle politiche di taglio della spesa pubblica che si perseguono da alcuni anni al fine del necessario risanamento del deficit del bilancio dello stato, e che hanno fortemente pesato soprattutto sugli investimenti, con conseguenze più gravi nel Mezzogiorno, nonostante che gli stessi indirizzi della Comunità suggerivano di evitare i tagli nelle zone arretrate.
Il Mezzogiorno, sia in termini di crescita del reddito che dell'occupazione, ha cosè potuto usufruire molto meno del resto del paese della stessa forte ripresa della produzione, trainata negli anni scorsi dalle esportazioni, la quale, se non ha certo risolto i problemi della occupazione in tutto il resto del paese, ha creato tensioni sul mercato del lavoro in alcune regioni del centro e nord-est, mentre ben poco è cambiato nella condizione del Mezzogiorno.
E a partire da questa situazione, da una condizione sempre più intollerabile, di parti consistenti del territorio meridionale, nel quale centinaia di migliaia di giovani rischiano di perdere anche la speranza di trovare un lavoro dignitoso, che si rischiano di aprire fenomeni di degrado sociale e civile molto gravi.
Da un lato la criminalità organizzata, dopo gli importanti successi ottenuti nella repressione da parte della magistratura e delle forze dell'ordine, la quale rischia una nuova crescita anche di credibilità, sia per il clima politico diverso, e la caduta della tensione e della mobilitazione civile e dell'opinione pubblica che ha registrato negli ultimi anni, dopo le elezioni del '94, sia perchè si presenta come un'alternativa di vita possibile di fronte al vuoto di speranze e di lavoro per una parte della popolazione.
D'altro lato un'espansione del lavoro precario, del lavoro nero e illegale, visti come uniche alternative possibili all'esclusione sociale da strati consistenti di giovani e meno giovani.
E in questo clima che si inseriscono strategie diverse da parte del padronato e delle sue organizzazioni.
In primo luogo stupisce il gruppo dirigente uscente della Confindustria che ha aperto un'offensiva senza precedenti con lo scopo di far pesare sul salario reale e contrattuale dei lavoratori meridionali nuovi assunti, tutto il peso della fine dell'intervento straordinario e dei differenziali esistenti in termini di condizioni generali nel territorio.
Una parte di interlocutori imprenditoriali, al contrario, consapevole della debolezza e della miopia di una strategia che tenda a mantenere le imprese in una condizione di sottosviluppo, di bassa produttività, di confronto protetto col mercato, hanno accettato una linea, difficile anche per il sindacato, di fuoriuscita graduale ma contrattata dal lavoro nero, illegale e sottopagato, di una parte delle imprese del Mezzogiorno, al fine di farle rientrare nella normalità di regole sindacali, di mercato, di efficienza.
Infine una parte degli industriali e delle associazioni del nord- est del paese, a fronte del boom produttivo hanno proposto una strategia di decentramento di produzioni e di imprese verso il Mezzogiorno, accompagnate da flussi di immigrazione temporanea, soprattutto qualificata, nelle zone di maggior concentrazione delle proprie imprese, concordando interventi adeguati anche con le Regioni, gli Enti Locali interessati, oltre che con lo stesso governo.
Queste diverse proposte dimostrano tutte una diffusa presa di coscienza, anche da parte del mondo imprenditoriale, della assoluta necessità di un proprio impegno diretto, di carattere nuovo, nei confronti del Mezzogiorno.
Ma la Cgil ribadisce che il costo del lavoro e i salari nel Sud sono sempre stati più bassi che nel resto del paese, e, tuttavia, questo non ha mai significato di per se un reale incentivo a uno sviluppo di un sistema di imprese solido e auto propulsivo, nè un incentivo a una crescita della occupazione.
In particolare appare assolutamente strumentale la richiesta di concordare una deroga ai contratti nazionali, per le nuove imprese o per l'ampliamento di quelle esistenti, proposta che tende in realtà a destrutturare in tutto il paese il sistema esistente di relazioni sindacali, che ha nei contratti nazionali di categoria uno dei suoi pilastri fondamentali.
Pur tuttavia la Cgil e i sindacati confederali non si sono mai sottratti, di fronte a casi concreti e a proposte specifiche di nuovi investimenti per nuova occupazione, a verificare le possibilità di concordare itinerari che favorissero nuove flessibilità del lavoro e dello stesso costo del lavoro.
Ma ben altri sono i problemi da affrontare e le questioni da risolvere perchè si creino condizioni favorevoli allo sviluppo delle imprese e dell'occupazione nel Mezzogiorno: occorre dotarlo di moderne infrastrutture di base per sistemi di comunicazione di merci, persone messaggi; di un sistema di formazione, scolastica e professionale, moderno e diffuso; di un'amministrazione pubblica efficiente e trasparente, capaci di diventare punti di riferimento e strumenti efficaci per la programmazione del territorio, per la crescita civile e il miglioramento della qualità della vita delle popolazioni; di una rete di banche e di strumenti di intermediazione finanziaria sani e moderni, capaci di indirizzare e favorire lo sviluppo di imprese; di nuclei di ricerca scientifica e tecnologica capaci di radicarsi nelle specificità del territorio, guardando al mondo come livello culturale, di comunicazione, di aggiornamento, di competenze; ecc. Tutte questioni centrali per lo sviluppo moderno dell'insieme del paese.
Ma è proprio a partire da queste considerazioni che la Cgil ritiene che il governo sia interlocutore necessario di un'intesa che affronti in termini efficaci e nuovi la questione meridionale, mentre non è sufficiente una interlocuzione tra le parti sociali.
D'altra parte la Cgil ritiene che il punto di partenza preciso sono gli impegni contenuti nell'accordo del 23 luglio 1993, tuttora in larga parte inattuati salvo quelli che comportavano una precisa responsabilità delle organizzazioni sindacali, per una moderazione salariale, al fine di favorire una concreta lotta all'inflazione e un'efficace opera di risanamento dei conti pubblici.
Lo sviluppo del Mezzogiorno d'Italia, il suo risanamento al fine di renderlo protagonista del proprio futuro è, quindi, una partita decisiva per l'insieme del paese, ed è un terreno di verifica per lo stesso concreto progetto di Unione europea che si vuole costruire.
Intorno a questo tema si definisce da un lato il rapporto tra regioni avanzate e regioni arretrate nell'Europa di domani; dall'altro l'impegno concreto dell'Ue per una strategia di sviluppo e di cooperazione con i paesi terzi del Mediterraneo del quale il Mezzogiorno d'Italia, per ragioni storico-culturali e geopolitiche attuali, può diventare un interlocutore attivo importante.
I prossimi anni dovranno vedere, infatti un riequilibrio tra gli impegni politici, finanziari, di investimento, di cooperazione da parte dell'Ue nei confronti dei paesi ex-comunisti dell'Europa centro-orientale con gli impegni da assumere nei confronti dei paesi terzi mediterranei, cosè come si è cominciato a definire nella Conferenza di Barcellona.
Una parte delle prospettive di sviluppo del Mezzogiorno dipendono anche dalle scelte strategiche che si faranno in questa direzione.

5. Trasformare la ricchezza improduttiva in investimenti

Non vi può essere risanamento del bilancio pubblico senza una politica di sviluppo e senza che le politiche di contenimento della spesa e di equità fiscale siano esplicitamente finalizzate a questo obiettivo. Riduzione dell'inflazione, svalutazione e riduzione dei tassi di interesse non possono essere elementi sufficienti a rilanciare crescita e occupazione. Il proseguimento dell'azione di risanamento del bilancio deve assumere esplicitamente la ricostruzione produttiva e sociale del paese come elemento inscindibile dalle politiche di stabilizzazione finanziaria.
La creazione di nuove opportunità di lavoro esige che si affronti esplicitamente la specificità della crisi italiana: un risparmio e una ricchezza consistenti e immobilizzati nel debito pubblico; l'enorme ritardo tecnologico, in infrastrutture produttive e in infrastrutture sociali; la necessità di promuovere innovazione, ricerca e formazione. I vincoli interni ed internazionali non consentono più un'espansione generalizzata della domanda mediante l'incremento dei consumi. Per questo diventa indispensabile predisporre un progetto che si fondi su una rilevante espansione del capitale materiale e immateriale del paese mediante un processo di attivazione di investimenti pubblici e privati. Le risorse sono reperibili senza ricorrere all'aumento della pressione fiscale, bensè incentivando la trasformazione dell'immobilizzazione finanziaria e improduttiva del risparmio in investimenti. Strumenti finanziari, fiscali e di regolazione pubblica devono convergere al fine di operare un grande riorientamento delle risorse.
Ancora, ai fini di una razionalizzazione della spesa pubblica, andrebbe finalmente adottata una politica diretta alla eliminazione delle strutture duplicate e alla proliferazione dei centri di spesa non essenziali, accompagnata da una standardizzazione della domanda pubblica, utile per diminuire i costi di acquisizione dei servizi e della strumentazione da parte della pubblica amministrazione, e per utilizzare la domanda pubblica come strumento di sollecitazione della qualificazione tecnologica del sistema imprenditoriale italiano.

6. La riduzione del debito pubblico

Occorre affrancare la nostra economia da quello che è diventato uno dei più grandi limiti alla crescita: un peso degli interessi sul debito pubblico che condiziona tutte le politiche economiche, sociali e di bilancio. La riduzione degli interessi e del debito diventa quindi questione centrale. Va rifiutata ogni ipotesi di ripudio o di consolidamento, in quanto minerebbe ogni credibilità dell'azione pubblica.
Bisogna favorire, anche per via fiscale, la trasformazione del debito pubblico in risparmio che alimenti investimenti produttivi o in partecipazione al capitale di rischio. Diversificare l'imposizione fiscale; allungare le scadenze; determinare differenziali di rendimento adeguati; rilanciare un prestito di solidarietà nazionale che, in luogo di generici titoli pubblici a copertura del debito, offra titoli con rendimenti certi, di lungo periodo, agevolati fiscalmente e destinati a finanziare, sia a livello centrale che periferico, un Fondo per lo sviluppo e l'occupazione; definire un processo di conversione volontaria del debito in partecipazione al patrimonio pubblico da rendere produttivo, decentrandone la gestione, valorizzandone l'utilizzo, o alienandolo, a partire dal patrimonio residenziale delle pubbliche amministrazioni: possono essere tutti strumenti decisivi nell'accelerare il processo di risanamento del debito pubblico.

7. Un fisco equo

Essenziale, per una profonda trasformazione delle Stato sociale, è il riordinamento del sistema fiscale e contributivo che, già di per sè, costituisce un mezzo per raggiungere una maggiore equità sociale. Ognuno dei tre "segmenti di vita" - di cui si è detto - non può più essere ormai confinato in periodi distinti; ciò comporta anche la rimodulazione dei trattamenti fiscali coerenti con un tale impianto.
Occorre in primo luogo una riforma che rilegittimi il prelievo fiscale in quanto lo si rende più equo, più decentrato e più connesso alla qualità ai servizi pubblici. Il processo di costruzione di un federalismo solidale e cooperativo si deve saldare alla esigenza di tassare di più la ricchezza e meno il lavoro e la produzione, spostando il carico sulla ricchezza e sui patrimoni inutilizzati e sull'evasione. La tassazione delle rendite finanziarie e dei patrimoni finanziari va quindi modificata, allargando in tal modo la base imponibile a favore di una riduzione delle aliquote e delle imposte sul lavoro e sulla produzione.
Criteri essenziali per la riforma fiscale sono: il rafforzamento del criterio della progressività sostanziale; l'ampliamento e l'unificazione della base imponibile; la lotta all'evasione e il decentramento fiscale; l'attuazione della riforma dell'amministrazione centrale e periferica.
Si può pensare a una semplificazione del sistema delle imposte, con un'unica dichiarazione per imposte e contributi, cancellando quelle gravanti sugli stessi cespiti, e eliminando il coacervo di imposte locali. Il gettito di queste ultime può essere coperto in parte dall'Irva e in parte dall'introduzione di una tassa ecologica e da una tassa sul consumo dell'energia - sempre a livello comunale - utili anche ai fini della finalizzazione di risorse al recupero ambientale e alla conversione industriale.
Va quindi ridotto il prelievo sul reddito da lavoro definendo un sistema di aliquote fiscali e contributive più basse, ma eliminando tutte le forme di restringimento e di elusione della base imponibile, legali e illegali. Per i contributi, a fronte di prestazioni generali come la sanità, va istituita un'imposta regionale sul valore aggiunto d'impresa che sostituisca i contributi sanitari sulle imprese, sui lavoratori e pensionati e la tassa sulla salute. Questo consente, fra l'altro, di creare un rapporto trasparente fra il momento della spesa, che è regionale, e il momento del prelievo.
La Cgil sostiene la modifica complessiva della tassazione sulla ricchezza e sul patrimonio, per eliminare il privilegio insostenibile di cui gode oggi la ricchezza finanziaria rispetto ai patrimoni costituiti da immobili anche di prima abitazione, e rispetto agli stessi patrimoni produttivi delle imprese. Ciò senza introdurre altre forme di tassazione specifica, ma riunificando quelle esistenti in un'unica imposta patrimoniale a bassa aliquota che gravi su tutta la ricchezza personale, comprese tutte le attività finanziarie, definendo una fascia di valore patrimoniale complessivo esente da qualsiasi imposta. In tal modo si alleggerirebbe il prelievo sulla casa di abitazione e sul patrimonio produttivo delle imprese, e si incentiverebbe il piccolo risparmio.
Va attuata una drastica revisione delle modalità di interventi sulla famiglia, rifiutando interventi generici - come le attuali detrazioni - o regressivi e iniqui come il quoziente familiare, ma riformando l'assegno per nucleo familiare, trasformandolo in un assegno di sostegno ai redditi e al lavoro di cura, correlandolo al reddito e alla composizione della famiglia.
Andrebbe rivisto anche il sistema delle defiscalizzazioni nel senso di una sua semplificazione e della sua riconduzione ad alcune politiche chiare e finalizzate, come ad esempio la defiscalizzazione completa delle attività del terzo settore, utile per stimolare la crescita di un mercato sociale, e degli investimenti nel campo della ricerca, dello sviluppo tecnologico e della formazione da parte delle imprese. Rivedendo anche il sistema delle aliquote fiscali in senso più favorevole, occorrerebbe poi introdurre una legislazione sull'evasione fiscale molto più rigorosa e penetrante, attrezzando anche l'amministrazione finanziaria centrale e le autonomie locali in direzione di una gestione efficiente del sistema di prelievo e rendendo definitivamente operativi i controlli incrociati.


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